Urban Nature: il segreto di Campobasso
…Ma a visitare la vecchia Campobasso il viaggiatore frettoloso che capiti qui per affari non ci va.
Il vecchio villaggio medioevale ha una sua modesta vita privata che ha scarsi rapporti con la città nuova che è quella che tutti vedono e che sorprende per la sua modernità tutta aperta e rivelata.
Quando vi arrivi essa allinea davanti ai tuoi occhi tutti i suoi edifici pubblici, i suoi monumenti, le sue scuole, i suoi alberghi: tutto è comodo, a portata di mano come nei quartieri europei delle grandi città orientali. Il ristorante, il barbiere, il caffè, il tabaccaio, il camiciaio, lo stiratore son lì costola a costola.
Un breve giro, pochi passi e tutte le necessità materiali sono rapidamente soddisfatte. Questa facilità, questa agevole maniera di provvedere a se stessi allevia il peso del vivere, dà alla personalità un senso di signorile sufficienza che le metropoli europee non conoscono.
Campobasso nuova ha questo carattere perché è nata di recente con una specifica funzione di centro provinciale. Quando divenne capoluogo, nel 1806 mi pare, in virtù di una leggina promossa da Vincenzo Cuoco, leggina che per la prima volta staccava il Contado di Molise dalla Capitanata, Campobasso era un centro rurale di pochissime migliaia di abitanti e non aveva vicende particolarmente gloriose.
Doveva questa sua promozione forse alla sua posizione geografica, forse ad altri motivi che io non conosco. Comunque non aveva, come quasi tutte le altre città italiane, vecchi palazzi signorili, vecchi conventi sufficientemente ampi per alloggiarvi i nuovi uffici. Non aveva quegli edifici che, nati in genere per vicende sanguinose, guerre intestine, gare di sfarzo tra famiglie o ordini religiosi rivali, sono disposti secondo un ordine che i secoli hanno convalidato con le minori armonie di case, vicoli, passaggi, piazze, atri.
Campobasso s’è costruita la sua fisionomia nell’ultimo secolo: il vecchio villaggio che s’inerpica con i suoi cumuli di case bigie verso il terrigno castello che lo domina è stato escluso dalla vita palese del centro dai grossi palazzi umbertini e novecento della città nuova e che accompagnano la loro dignità ufficiale con bonario decoro. Della Campobasso antica nessuno parla; non esiste una ragione al mondo per andarvi: quelli che vi abitano e vi lavorano, quando vogliono, scendono nelle larghe vie degli uffici e dei negozi e si mischiano alla piccola folla che vi transita; non credo esista il movimento inverso.
Ma questa moderna semplicità di Campobasso ha un suo chiaro incanto. Le vie larghe che sboccano nella prossima campagna sono vibranti di luce montana di aria profumata di erbe. Bisogna capitarci in giugno, come è avvenuto a me, con un sole gagliardo ma con un’aria fresca e ventilata, con questi branchetti di ragazze robuste dall’anca snella e le spalle dritte che sciamano dalle scuole e dagli uffici ciarliere, festose e questi gruppi di contadini vestiti di tetri colori, con i baffoni scuri, dignitosi e alteri che si aggirano per le strade, per capire il segreto di Campobasso.
Hanno l’aria, questi contadini, di chi sta a casa propria; quella loro rusticità sembra contrastante con la civile, anonima aria delle strade; ma il contrasto è apparente. La città è nata col loro consenso e con quello dei loro avi, nei loro villaggi c’è stato un lungo discorrere durato un secolo intorno all'opportunità della disposizione di un edificio o della apertura di una piazza. I loro “galantuomini” riassumevano il parere dei molti, lo vagliavano, lo arricchivano di considerazioni personali e lo portavano nelle riunioni al Gran Caffè o al Circolo Sannitico, dove tutte le ragioni venivano discusse, gl’interessi conciliati, prese le decisioni.
In quei palazzi tra i quali il contadino passeggia, lavoravano l’avvocato, il medico dei suoi paesi che si sono trasferiti ma continuano ad avere gli stessi clienti e vivono in rapporti sempre stretti con i loro conterranei.
Campobasso è venuta su lentamente, alimentandosi di queste linfe campagnole e che oggi sono il suo intrinseco nutrimento. La città non è stata consacrata capoluogo per antico splendore; si è venuta adeguando via via alla sua funzione; è nata per una sorta di di collaborazione di tutti gli abitanti delle terre che l’hanno vista nascere, che hanno visto anno per anno aumentare le sue case, sorgere i suoi istituti, celebrare i suoi grandi morti, il suo glorioso passato.
Gabriele Pepe, in questo periodo, fu scelto a simbolo della partecipazione molisana alle lotte del risorgimento: partecipazione che non ebbe nulla di rumoroso, che fu opera di poche anime generose e pochi cervelli colti. Gabriele Pepe li rappresenta egregiamente; e il bel monumento del Jerace testimonia l’amore dei molisani per il loro eroe. Semplice eroe, mi piace l’aperta onestà della fronte in questa statua e il gagliardo moto del busto e delle gambe. Quello che mi convince meno è il divertito e tenero sorriso che lo scultore gli ha attribuito e che contrasta con la fama che fa di Gabriele Pepe uno degli uomini più taciturni ed austeri del suo secolo.
Ma questi contadini che passano accanto al monumento non sanno nulla della sua austerità, dei suoi buoni studi danteschi, conoscono soltanto la sua sfida al Lamartine che aveva offeso l’Italia e sanno che nello scontro, generosamente, tra due armi disuguali, il colonnello Pepe scelse la più corta. Bel gesto atto ad incidersi profondamente nella mente del popolo che conosce per miti e leggende e non per corretto ragionamento. Vincenzo Cuoco, che aveva appreso questa verità dal suo maestro Giambattista Vico, non si dorrebbe, se fosse vivo, della scarsa popolarità di cui tuttora soffre nei suoi luoghi.
Francesco Jovine, 1941.
Quando vi arrivi essa allinea davanti ai tuoi occhi tutti i suoi edifici pubblici, i suoi monumenti, le sue scuole, i suoi alberghi: tutto è comodo, a portata di mano come nei quartieri europei delle grandi città orientali. Il ristorante, il barbiere, il caffè, il tabaccaio, il camiciaio, lo stiratore son lì costola a costola.
Un breve giro, pochi passi e tutte le necessità materiali sono rapidamente soddisfatte. Questa facilità, questa agevole maniera di provvedere a se stessi allevia il peso del vivere, dà alla personalità un senso di signorile sufficienza che le metropoli europee non conoscono.
Campobasso nuova ha questo carattere perché è nata di recente con una specifica funzione di centro provinciale. Quando divenne capoluogo, nel 1806 mi pare, in virtù di una leggina promossa da Vincenzo Cuoco, leggina che per la prima volta staccava il Contado di Molise dalla Capitanata, Campobasso era un centro rurale di pochissime migliaia di abitanti e non aveva vicende particolarmente gloriose.
Doveva questa sua promozione forse alla sua posizione geografica, forse ad altri motivi che io non conosco. Comunque non aveva, come quasi tutte le altre città italiane, vecchi palazzi signorili, vecchi conventi sufficientemente ampi per alloggiarvi i nuovi uffici. Non aveva quegli edifici che, nati in genere per vicende sanguinose, guerre intestine, gare di sfarzo tra famiglie o ordini religiosi rivali, sono disposti secondo un ordine che i secoli hanno convalidato con le minori armonie di case, vicoli, passaggi, piazze, atri.
Campobasso s’è costruita la sua fisionomia nell’ultimo secolo: il vecchio villaggio che s’inerpica con i suoi cumuli di case bigie verso il terrigno castello che lo domina è stato escluso dalla vita palese del centro dai grossi palazzi umbertini e novecento della città nuova e che accompagnano la loro dignità ufficiale con bonario decoro. Della Campobasso antica nessuno parla; non esiste una ragione al mondo per andarvi: quelli che vi abitano e vi lavorano, quando vogliono, scendono nelle larghe vie degli uffici e dei negozi e si mischiano alla piccola folla che vi transita; non credo esista il movimento inverso.
Ma questa moderna semplicità di Campobasso ha un suo chiaro incanto. Le vie larghe che sboccano nella prossima campagna sono vibranti di luce montana di aria profumata di erbe. Bisogna capitarci in giugno, come è avvenuto a me, con un sole gagliardo ma con un’aria fresca e ventilata, con questi branchetti di ragazze robuste dall’anca snella e le spalle dritte che sciamano dalle scuole e dagli uffici ciarliere, festose e questi gruppi di contadini vestiti di tetri colori, con i baffoni scuri, dignitosi e alteri che si aggirano per le strade, per capire il segreto di Campobasso.
Hanno l’aria, questi contadini, di chi sta a casa propria; quella loro rusticità sembra contrastante con la civile, anonima aria delle strade; ma il contrasto è apparente. La città è nata col loro consenso e con quello dei loro avi, nei loro villaggi c’è stato un lungo discorrere durato un secolo intorno all'opportunità della disposizione di un edificio o della apertura di una piazza. I loro “galantuomini” riassumevano il parere dei molti, lo vagliavano, lo arricchivano di considerazioni personali e lo portavano nelle riunioni al Gran Caffè o al Circolo Sannitico, dove tutte le ragioni venivano discusse, gl’interessi conciliati, prese le decisioni.
In quei palazzi tra i quali il contadino passeggia, lavoravano l’avvocato, il medico dei suoi paesi che si sono trasferiti ma continuano ad avere gli stessi clienti e vivono in rapporti sempre stretti con i loro conterranei.
Campobasso è venuta su lentamente, alimentandosi di queste linfe campagnole e che oggi sono il suo intrinseco nutrimento. La città non è stata consacrata capoluogo per antico splendore; si è venuta adeguando via via alla sua funzione; è nata per una sorta di di collaborazione di tutti gli abitanti delle terre che l’hanno vista nascere, che hanno visto anno per anno aumentare le sue case, sorgere i suoi istituti, celebrare i suoi grandi morti, il suo glorioso passato.
Gabriele Pepe, in questo periodo, fu scelto a simbolo della partecipazione molisana alle lotte del risorgimento: partecipazione che non ebbe nulla di rumoroso, che fu opera di poche anime generose e pochi cervelli colti. Gabriele Pepe li rappresenta egregiamente; e il bel monumento del Jerace testimonia l’amore dei molisani per il loro eroe. Semplice eroe, mi piace l’aperta onestà della fronte in questa statua e il gagliardo moto del busto e delle gambe. Quello che mi convince meno è il divertito e tenero sorriso che lo scultore gli ha attribuito e che contrasta con la fama che fa di Gabriele Pepe uno degli uomini più taciturni ed austeri del suo secolo.
Ma questi contadini che passano accanto al monumento non sanno nulla della sua austerità, dei suoi buoni studi danteschi, conoscono soltanto la sua sfida al Lamartine che aveva offeso l’Italia e sanno che nello scontro, generosamente, tra due armi disuguali, il colonnello Pepe scelse la più corta. Bel gesto atto ad incidersi profondamente nella mente del popolo che conosce per miti e leggende e non per corretto ragionamento. Vincenzo Cuoco, che aveva appreso questa verità dal suo maestro Giambattista Vico, non si dorrebbe, se fosse vivo, della scarsa popolarità di cui tuttora soffre nei suoi luoghi.
Francesco Jovine, 1941.
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